Riporto quì di seguito una breve lettura del primo capitolo di 121 pagine del Libro
Immanuel Kant "Che cosa significa orientarsi nel pensiero" a cura di Franco Volpi - Traduzione di Petra Dal Santo - 1996 ADELPHI EDIZIONI -
Preciso che il titolo del mio 64° Post è lo stesso del primo capitolo di questo Libro.
Non farò miei commenti a quanto riporterò di questo Libro (circa tre pagine), vorrei soltanto che il Lettore non si "fermasse" a quanto trascritto, ma che si esercitasse a qualche attenta riflessione, liberandosi dal pur necessario rispetto verso Coloro che ci hanno preceduti nel Tempo, dando è vero ai Posteri, Conoscenza, ma anche (involontariamente in quanto la Conoscenza nel Tempo Storico si è dimostrata in evolutivo perfezionamento) la importante possibilità di operare con la propria personale "capacità intellettiva" nei confronti di un Tema che ci riguarda in modo sostanziale così da vicino, magari aggiungendo o modificando secondo il proprio intendimento , perchè poi il confronto e la verifica di quanto potremmo avere modificato è comunque sempre possibile e perchè in definitiva " penso " che il Conoscere dell'Uomo sia ancora in cammino.
1. Che cosa significa pensare?
Fin dai suoi albori - da quando Parmenide ha formulato la celebre tesi secondo la quale "pensiero ed essere sono la stessa cosa" (fr.3) - la filosofia non ha mai smesso di interrogarsi circa quell'indefinibile privilegio della specie umana che è il "pensiero". Bastano poche testimonianze capitali per far risaltare in tutta la sua evidenza il fatto che il pensiero costituisce da sempre una delle questioni fondamentali che impegnano la filosofia e uno dei temi-pilastro sui quali essa ha lavorato e costruito nel corso della sua lunga storia.
Platone e Aristotele, che possono valere qui come testimoni per la concezione antica, fanno del pensiero l'attività che contraddistingue l'uomo dagli altri animali e che,esercitato nella sua purezza come "pensiero di pensiero" (nòesis noèseos), lo rende simile agli dèi. A loro risale il primo studio rigoroso e sistematico delle diverse facoltà della mente - quelle discorsive e mediate della ragione (diànoia, ratio), che produce scienza e quelle "intuitive" e immediate dell'intelletto o intelligenza (noùs, intellectus), che coglie i princìpi da cui la scienza muove. In un significativo passo del de partibus animalium, croce e delizia dei commentatori,Aristotele arriva a dire che delle parti dell'uomo "solo il pensiero (noùs) viene da fuori (thyrathen) ed è divino: perchè l'attività del corpo non ha nulla in comune con la sua attività"(II,3,736 b 27-29). Intorno all'enigmatica natura del noùs, si accenderà una disputa plurisecolare tra i commentatori antichi, arabi e medioevali - Alessandro di Afrodisia, Averroè e Tommaso d'Aquino sono i tre nomi che spiccano sugli altri - la quale, coinvolgendo il problema dell'immortalità dell'anima e il rapporto tra ragione e fede, si protarrà fino in pieno Rinascimento, cioè fino al simbolico termine ad quem rappresentato dall'anno in cui Pietro Pomponazzi vide bruciato pubblicamente a Venezia il suo de immortalitate animae (1516). Grosso modo un secolo più tardi, inaugurando l'età nuova, Descartes faceva del pensiero il principio incontrovertibile sul quale poggia ogni certezza conoscitiva e poneva così le basi di tutto il razionalismo moderno.Nell'indubitabilità del cogito ergo sum, il principio che dal pensare inferisce l'essere, Descartes vedeva una "verità così salda e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici" e giudicava di poterla assumere senza esitazione quale fondamento primo della sua filosofia (Discorso sul metodo, IV).
Come tutte le intuizioni capitali anch'essa trovò subito la sua opposizione essenziale: Pascal, il grande contemporaneo e antagonista di Descartes, condivide con lui l'idea che il pensiero sia ciò che contraddistingue l'uomo nella sua essenza più profonda: "Posso benissimo concepire l'uomo senza mani, senza piedi e magari senza testa, ma non senza pensiero" (Pensieri, n.339). Ma Pascal cala il primato del pensiero in uno sfondo metafisico meno ottimistico, più malinconico e mesto: "L'uomo non è che una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l'universo intero si armi per schiacciarlo; un soffio d'aria, una goccia d'acqua bastano a ucciderlo... Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. Sforziamoci quindi di ben pensare: ecco il principio morale". E a margine si domanda: " Ma che cos'è questo pensiero?" (Pensieri, nn. 346e347). E' la domanda che alimenterà un importante filone dello spiritualismo francese, raggiungendo un suo punto alto nella memoria di Maine de Biran su L'influenza dell'abitudine sulla facoltà di pensare (1802), ma che occuperà anche pensatori sensisti come Destutt de Tracy, che nella Memoria sulla facoltà di pensare (1798) scrive: "Il pensiero, o la facoltà di pensare, è il fenomeno massimo e più importante del nostro essere... E' la nostra esistenza tutta intera... Sarebbe la stessa cosa che la vita, se non fosse che può essere sospeso dal sonno o da altri accidenti" (II,1).
E' soprattutto nella filosofia tedesca, con la "rivoluzione copernicana" di Kant e con l'idealismo, che il pensiero diventa il baricentro verso il quale gravita ogni nostra esperienza, il punto archimedeo sul quale poggia tutta l'architettonica del nostro conoscere. Nei suoi vasti paragrafi Kant sviluppa un vero e proprio sistema del pensiero e delle sue facoltà, che non tarda ad affermarsi e che rimane a lungo in auge come riferimento imprenscindibile.
Come tutte le intuizioni capitali anch'essa trovò subito la sua opposizione essenziale: Pascal, il grande contemporaneo e antagonista di Descartes, condivide con lui l'idea che il pensiero sia ciò che contraddistingue l'uomo nella sua essenza più profonda: "Posso benissimo concepire l'uomo senza mani, senza piedi e magari senza testa, ma non senza pensiero" (Pensieri, n.339). Ma Pascal cala il primato del pensiero in uno sfondo metafisico meno ottimistico, più malinconico e mesto: "L'uomo non è che una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l'universo intero si armi per schiacciarlo; un soffio d'aria, una goccia d'acqua bastano a ucciderlo... Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. Sforziamoci quindi di ben pensare: ecco il principio morale". E a margine si domanda: " Ma che cos'è questo pensiero?" (Pensieri, nn. 346e347). E' la domanda che alimenterà un importante filone dello spiritualismo francese, raggiungendo un suo punto alto nella memoria di Maine de Biran su L'influenza dell'abitudine sulla facoltà di pensare (1802), ma che occuperà anche pensatori sensisti come Destutt de Tracy, che nella Memoria sulla facoltà di pensare (1798) scrive: "Il pensiero, o la facoltà di pensare, è il fenomeno massimo e più importante del nostro essere... E' la nostra esistenza tutta intera... Sarebbe la stessa cosa che la vita, se non fosse che può essere sospeso dal sonno o da altri accidenti" (II,1).
E' soprattutto nella filosofia tedesca, con la "rivoluzione copernicana" di Kant e con l'idealismo, che il pensiero diventa il baricentro verso il quale gravita ogni nostra esperienza, il punto archimedeo sul quale poggia tutta l'architettonica del nostro conoscere. Nei suoi vasti paragrafi Kant sviluppa un vero e proprio sistema del pensiero e delle sue facoltà, che non tarda ad affermarsi e che rimane a lungo in auge come riferimento imprenscindibile.
Termino quì la mia trascrizione ripetendo ancora il Titolo del mio 64°Post : Che cosa significa pensare ?
Cordialità
Sopangi.
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